Polifenoli: i guardiani naturali della salute

Polifenoli: i guardiani naturali della salute

I polifenoli sono composti organici naturali, prodotti da una vasta gamma di organismi, tra cui principalmente piante, ma anche batteri, funghi e persino animali, le cui proprietà antiossidanti e antinfiammatorie li rendono particolarmente interessanti per favorire il benessere generale dell’organismo, attraverso l’alimentazione.

Frutti come uva, mele, pere, ciliegie o frutti di bosco possono contenere fino a 200-300 mg di polifenoli per 100 grammi di peso del prodotto fresco, e anche i prodotti derivati da questi frutti possono contenerne in misura significativa. Anche i cereali, i legumi secchi e il cioccolato contribuiscono all’assunzione di polifenoli e perfino un bicchiere di vino rosso o una tazza di tè o caffè possono arrivare a contenere circa 100 mg di polifenoli.

Numerosi studi epidemiologici e relative meta-analisi suggeriscono che il consumo a lungo termine di diete ricche di polifenoli vegetali offra una protezione contro lo sviluppo di tumori, malattie cardiovascolari, diabete, osteoporosi e malattie neurodegenerative.

In questo articolo indagheremo il ruolo dei polifenoli negli esseri viventi e a quali condizioni possano svolgere un reale effetto benefico nell’uomo, capace di contribuire in modo rilevante alla nostra salute.

Il ruolo biologico dei polifenoli nelle piante

I polifenoli svolgono un ruolo cruciale nelle piante: si tratta infatti di metaboliti secondari, che agiscono come veri e propri scudi naturali, proteggendo le piante dai danni ossidativi causati dai raggi UV, dai parassiti e da altre aggressioni esterne, ma che permettono anche alle piante di “comunicare”, come nel caso dei pigmenti vessillari che attirano gli insetti impollinatori. Ad esempio, il Cistus x incanus L. è una pianta mediterranea nota per il suo alto contenuto di polifenoli, che le conferiscono una forte resistenza agli stress ambientali.

Chimicamente i polifenoli si suddividono in quattro grandi famiglie: i flavonoidi, gli acidi fenolici, gli stilbeni ed i lignani; le prime due a loro volta sono suddivise in molte altre categorie; alcune di queste, come gli antociani e i flavonoidi sono responsabili dei bellissimi colori dei fiori e, in parte, della livrea autunnale delle foglie.

I benefici dei polifenoli per la salute umana

I polifenoli sono oggetto di molta attenzione da parte della comunità scientifica per i loro numerosi benefici per la salute umana, agendo principalmente come potenti antiossidanti. Grazie alla presenza di gruppi fenolici nella loro struttura chimica, questi composti sono in grado di neutralizzare i radicali liberi, proteggendo le cellule dai danni ossidativi e contribuendo così a ridurre il rischio di malattie croniche, come le malattie cardiovascolari, ed il cancro.

Oltre alle proprietà antiossidanti, i polifenoli possiedono anche notevoli proprietà antinfiammatorie, che aiutano a ridurre lo status infiammatorio, supportando la salute generale e il benessere. Il Melograno (Punica granatum L.), ad esempio, è ricco di punicalagine, un polifenolo con spiccate proprietà antinfiammatorie e antiossidanti.

Inoltre, i polifenoli mostrano efficaci proprietà antibatteriche e antiparassitarie, che contribuiscono alla difesa dell’organismo contro le infezioni. La Cannella (Cinnamomum verum J.Presl.), dalle note proprietà digestive ed ipoglicemizzanti, per esempio, può essere utilizzata anche per le sue proprietà antibatteriche, sia in ambito alimentare che cosmetico.

Infine, i polifenoli sono sotto i riflettori anche per i loro possibili effetti preventivi sul cancro: molti studi epidemiologici hanno dimostrato una relazione inversa tra un consumo regolare di frutta e verdura, ricchi in polifenoli, e lo sviluppo di alcuni tumori, in particolare quello del colon. I polifenoli eserciterebbero un’azione anticancro attraverso diversi meccanismi d’azione, oltre all’attività antiproliferativa, cioè la capacità di inibire lo sviluppo delle cellule tumorali, senza danneggiare le cellule sane.

La biodisponibilità dei polifenoli

Nonostante tutti i benefici descritti, esiste un ampio dibattito sulla reale efficacia dei polifenoli, a causa della loro biodisponibilità, cioè la capacità di queste molecole, spesso di grandi dimensioni, di raggiungere i tessuti bersaglio attraverso l’assorbimento ed il passaggio nella circolazione sanguigna.

La biodisponibilità dei polifenoli dipende strettamente dalla loro struttura chimica e non esiste una correlazione diretta tra la quantità di polifenoli presenti in un alimento e la loro biodisponibilità. Quest’ultima è legata innanzitutto alla bioaccessibilità, cioè alla quantità di sostanza attiva rilasciata dall’alimento/integratore durante la digestione gastrointestinale e disponibile per l’assorbimento.

I polifenoli negli alimenti si trovano spesso in forme molto complesse, che subiscono modificazioni durante la digestione gastrointestinale. Pertanto, le forme che raggiungono il sangue ed i tessuti possono essere diverse da quelle originarie ed anche la loro attività biologica e sicurezza devono essere attentamente comprovate.

L’impegno di EPO

I polifenoli rappresentano un prezioso alleato naturale per la salute, grazie alle loro numerose proprietà benefiche. EPO Srl, con i suoi 90 anni di esperienza e tradizione nella produzione di botanicals, offre estratti vegetali di altissima qualità, il cui contenuto in molecole bioattive viene standardizzato attraverso metodiche analitiche ufficiali e convalidate.

Inoltre, per i “Branded Extracts” garantisce anche studi di efficacia; dopo una prima valutazione dei risultati ottenuti in vitro, cioè su modelli cellulari predittivi del comportamento di queste molecole bioattive in organismi complessi, grande attenzione viene dedicata allo studio della bioaccessibilità e della biodisponibilità. Solamente al termine di questa lunga e laboriosa fase, gli estratti più promettenti possono essere considerati eleggibili per uno studio clinico che, in caso di esito positivo, garantirà efficacia e sicurezza del prodotto.

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Da Parigi 2024 all’antica Olimpia, il legame secolare tra piante, fiori e Olimpiadi

Questa estate Parigi fiorirà di un rosso mai visto. Per le Olimpiadi 2024 infatti è stato creato un fiore inedito, l’Olympic Games Dahlia, dai petali di un rosso vibrante, che ricorda la fiamma olimpica; questa varietà è stata ideata nei laboratori del Parc Floral de Paris per incarnare la passione olimpica ed il legame emotivo tra i Giochi olimpici e la Ville Lumière. Piante e fiori, infatti, da sempre incarnano valori simbolici; in questo articolo indagheremo il legame profondo tra il mondo vegetale e le Olimpiadi.

I fiori di Tokyo 2020 e Londra 2012 (ma non Rio 2016)

Una delle caratteristiche dei bouquet olimpici imposta dal Comitato Olimpico Internazionale (IOC) è che le piante selezionate crescano nel Paese ospitante. Durante le Olimpiadi di Tokyo 2020 (tenutesi però nel 2021 a causa della pandemia da Covid-19), i vincitori ricevettero bouquet di specie coltivate nei distretti nord-orientali del Giappone, devastati dallo tsunami del 2011, dunque con precisi significati simbolici: girasoli di Miyagi piantati dai genitori sulla collina dove i loro figli avevano cercato inutilmente rifugio dallo tsunami; lisianthus di Fukushima, per la speranza di ripresa dell’agricoltura dopo il disastro nucleare; genziane di Iwate, di colore blu come il logo di Tokyo 2020; foglie di aspidistra di Tokyo, in omaggio alla città ospitante.

Anche i bouquet offerti ai vincitori di Londra 2012 riflettevano i colori del logo olimpico: erano infatti composti da rose di quattro cultivar diverse, tutte coltivate nel Regno Unito. Un’eccezione a questa usanza fu invece l’edizione delle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016, quando gli atleti vincitori ricevettero piccole sculture invece di fiori, per una scelta considerata più sostenibile.

Perché si omaggiano i vincitori delle gare olimpiche con mazzi di fiori?

L’omaggio floreale iniziò con le prime Olimpiadi moderne del 1896, riprendendo la tradizione di epoca vittoriana di celebrare i vincitori delle competizioni sportive con mazzi di fiori. Nell’Ottocento usare fiori con un significato simbolico in specifiche situazioni era parte di una comunicazione non verbale codificata, il cosiddetto “linguaggio dei fiori” o “florigrafia”.

Una tradizione che risale all’Antica Grecia

In realtà, già durante le Olimpiadi classiche i vincitori venivano omaggiati con piante dal significato simbolico. Nell’antichità, infatti, le piante erano legate a miti, divinità e valori morali; Olimpia, uno dei più grandi santuari della Grecia antica, era legata alla memoria di Eracle (Ercole), l’eroe par excellence, che aveva piantato accanto al tempio di suo padre Zeus un olivo, già menzionato nel suo Historia Plantarum da Teofrasto, il padre della botanica (IV sec. a.C.), come “l’olivo selvatico di Olimpia, da cui si ricavano le corone per i giochi“. Anche il geografo Pausania (II sec. d.C.) menziona il fatto che Eracle istituì la corona di foglie d’ulivo (kotinos) di questo albero sacro come premio per il vincitore della gara di corsa a piedi, in onore di Zeus, il re degli dei. Le Olimpiadi, dunque, erano innanzitutto un evento di carattere religioso e panellenico (che coinvolgeva, cioè, tutte le città-stato greche) e, per permettere ad atleti e pellegrini di viaggiare in sicurezza, veniva istituita anche una tregua olimpica.

A questo proposito, Erodoto, nelle sue Storie, racconta che il re persiano Serse, dopo la vittoriosa battaglia delle Termopili, si stupì del fatto che i greci preferissero gareggiare ai Giochi Olimpici per una corona d’ulivo anziché combattere (“Ahimé, Mardonio, contro quali uomini ci hai portato a combattere! Uomini che si battono non per denaro, ma per dimostrare il proprio valore!“), sottolineando, da un lato, il valore morale di quella corona e dall’altro l’importanza delle Olimpiadi e della tregua olimpica.

Oltre che con l’ulivo, simbolo di riconciliazione e pace, i vincitori delle competizioni olimpiche venivano omaggiati con rami di palma da dattero (simbolo della vittoria), e con ghirlande aromatiche di mirto e alloro (che indicavano la fama dei vittoriosi), ed anche con una mela (simbolo di bellezza e sapienza).

I Romani continuarono la tradizione di premiare gli atleti con corone vegetali e rami di palma, come testimoniato dal delizioso mosaico delle “Ragazze in bikini” a Piazza Armerina (IV sec. d.C.), in cui un’atleta vincitrice di una gara sportiva viene premiata da un’altra fanciulla con la palma della vittoria ed una corona floreale.

Pierre de Coubertin, John Sibthorp, Ferdinand Bauer e il Giardino Botanico Olimpico

Più che a Pierre de Coubertin, il fondatore delle moderne Olimpiadi, il merito di aver riannodato le fila con quell’antica tradizione si deve a John Sibthorp, professore di Botanica all’Università di Oxford, che nella seconda metà del Settecento esplorò la Grecia raccogliendo piante e fiori, e documentandole in dettagliate tavole a colori, grazie alla collaborazione con l’illustratore austriaco Ferdinand Bauer. Un lavoro titanico nel quale vennero identificate le piante simboliche dei Giochi Olimpici antichi e grazie anche al quale è oggi possibile visitare il Giardino Botanico Olimpico, nelle adiacenze del sito archeologico dell’antica Olimpia: un museo a cielo aperto, dove crescono 58 differenti specie di piante rappresentative della flora dell’antica città sacra, sulla base di descrizioni antiche e testimonianze successive.

Dall’EFSA nuove restrizioni per i botanicals contenenti derivati idrossiantracenici

I derivati idrossiantracenici (o antrachinoni) sono una classe di molecole presenti in diverse specie vegetali usate a fini salutistici, in particolare aloe, rabarbaro, senna, cascara e frangola, ma anche in comuni verdure, quali piselli, fagioli, lattuga e cavolo. Nella medicina tradizionale le piante antrachinoniche vantano un lungo impiego nella costipazione. Già dal 2018, tuttavia, un parere dell’EFSA, cioè l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, aveva posto in dubbio la sicurezza di questi preparati, ponendo le basi per la messa al bando dell’Aloe. Un recente parere pubblicato il 23 maggio 2024, ribadisce le stesse conclusioni anche per le altre 4 piante, che rischiano quindi di scomparire dal mercato degli integratori alimentari.

Una vicenda che ha suscitato molte perplessità

La vicenda ha radici lontane e inizia precisamente nel 2013, quando un’azienda si rivolse all’EFSA per una richiesta di approvazione di un claim salutistico relativo al miglioramento della funzione intestinale; il prodotto conteneva, tra gli ingredienti, anche 5 mg/compressa di Rabarbaro. In quell’occasione l’EFSA aveva confermato che i derivati dell’idrossiantracene contenuti in varie piante, tra cui la radice e il rizoma del Rheum palmatum L. e/o del Rheum officinale Baillon e/o dei loro ibridi, le foglie o i frutti della Cassia senna L. e/o della Cassia angustifolia Vahl, la corteccia del Rhamnus frangula L., del Rhamnus purshianus D.C. e dall’Aloe barbadensis Miller e/o varie specie di aloe, principalmente l’Aloe ferox Miller e i suoi ibridi, apportavano tale beneficio per un’assunzione giornaliera di 10 mg al giorno negli adulti; tuttavia, nello stesso documento, l’EFSA ne aveva sconsigliato l’uso a lungo termine per vari rischi legati alla funzione intestinale.

In seguito, nel 2016, la Commissione Europea ha richiesto all’EFSA di formulare un parere scientifico sulla valutazione della sicurezza dei derivati idrossiantracenici negli alimenti, in base all’ art.8 del Reg. (CE) n. 1925/2006, e di fornire anche un’indicazione sulla dose giornaliera da assumere, tale da non creare preoccupazioni per gli effetti nocivi sulla salute dell’uomo; l’EFSA, dopo aver revisionato i dati disponibili nella letteratura scientifica, ha concluso nel 2018 che, fino a prova contraria, i derivati dell’idrossiantracene dovevano essere considerati cancerogeni e genotossici (cioè in grado di provocare un danno al DNA cellulare). Da questo parere è derivato, nel 2021, il divieto di commercializzazione dei preparati a base di Aloe spp. contenenti derivati idrossiantracenici ad un livello ≥ 1 ppm (mg/kg) negli integratori alimentari, ma, paradossalmente, non il loro uso come aromatizzante; l’uso delle altre droghe antrachinoniche è stato posto sotto osservazione per un periodo di 4 anni, durante i quali gli operatori del settore avrebbero potuto raccogliere dati scientifici a supporto della loro sicurezza.

Nel 2023, la Commissione Europea ha richiesto all’EFSA di valutare gli studi presentati dalle parti interessate durante il periodo di scrutinio; EFSA, peraltro, aveva già ritenuto non provanti quelli presentati da SITOX (Società Italiana di Tossicologia) riguardo all’Aloe.

Benché i dati scientifici risultanti da tutti gli studi condotti siano risultati negativi, l’EFSA ha ritenuto che la sicurezza delle preparazioni contenenti idrossiantracenici non possa essere stabilita sulla base degli studi presentati, adducendo motivazioni che hanno sollevato non poche perplessità negli operatori del settore come all’interno della comunità scientifica.

L’approccio EFSA, tuttavia, non tiene conto del cosiddetto “effetto matrice” ovvero la differenza tra l’impiego di sostanze pure assunte isolatamente e quello dei fitocomplessi, in cui la presunta azione nociva verrebbe modulata dalla matrice vegetale stessa.

A questo punto si attende una decisione della Commissione Europea, che quasi certamente determinerà il bando negli integratori alimentari anche per le piante attualmente sotto osservazione, presumibilmente entro il 2025.

Quali alternative agli antrachinoni?

Le piante ed estratti vegetali contenenti derivati idrossiantracenici sono i lassativi più efficaci in natura e sono pertanto difficilmente sostituibili; esistono tuttavia altre classi di lassativi naturali, più blandi, come quelli zuccherini o osmotici, che richiamano acqua nel lume intestinale, o i lassativi lubrificanti (oli vegetali) che svolgono un’azione emolliente, ed anche le fibre, sia solubili che insolubili. Le fibre solubili, tra cui le mucillagini, associano all’azione puramente meccanica di aumento della massa fecale, il vantaggio che la loro fermentazione nel lume intestinale incrementa la flora batterica del colon e produce acidi grassi a corta catena con azione procinetica, che si traduce quindi in un miglioramento del transito intestinale. A chi soffre di stipsi è inoltre sempre consigliabile uno stile di vita sano, cioè attività fisica ed una dieta ricca in fibre.

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Dalla Griffonia simplicifolia un aiuto nel controllo dell’umore e dell’appetito

In primavera molte persone sperimentano sbalzi d’umore e disturbi del sonno: l’allungamento delle giornate e l’aumento delle temperature hanno infatti un impatto sul ciclo sonno-veglia; è anche la stagione in cui si evidenziano le conseguenze di un’alimentazione più pesante e della sedentarietà tipiche della stagione fredda. Scopriamo insieme una pianta tropicale che può venirci in aiuto.

Un fagiolo africano naturalmente ricco in 5-idrossitriptofano

La Griffonia simplicifolia (DC.) Baill. è un arbusto sempreverde e rampicante, originario delle aree umide dell’Africa occidentale, tradizionalmente utilizzato nella medicina popolare africana per trattare un’ampia varietà di malattie, principalmente sotto forma di stecche da masticare ottenute dal fusto e dalla radice.

Come emerge anche da un recentissimo lavoro, pubblicato su Challenges nel 2024 (Beneficial Properties and Sustainable Use of a Traditional Medicinal Plant: Griffonia simplicifolia), la fitoterapia occidentale cominciò a interessarsene negli anni Settanta del secolo scorso, principalmente perché i semi di questa pianta della famiglia delle fabacee, simili a fagioli, sono una fonte vegetale di 5-idrossitriptofano (5-HTP).

Nell’uomo, il 5-HTP si forma da un aminoacido essenziale, il triptofano, che normalmente ingeriamo attraverso la dieta: è infatti contenuto nell’albume dell’uovo, nei latticini, nella carne e nel pesce, ma anche nel cioccolato fondente e in alcuni semi. Una volta ingerito, il triptofano viene trasformato in 5-HTP, che è il precursore diretto della serotonina, chiamata anche, in maniera un po’ semplicistica, “ormone della felicità”.

L’azione degli estratti di Griffonia sul sistema nervoso centrale

Per questo, gli estratti di Griffonia simplicifolia sono stati ampiamente studiati per la loro azione sul sistema nervoso centrale, come regolatori di umore, sonno e appetito, e in particolare per le loro proprietà benefiche nel trattamento di ansia, depressione e fame nervosa.

Ansia e depressione

Uno studio in vivo del 2011 pubblicato su Phytomedicine (Anxiolytic-like effect of Griffonia simplicifolia Baill. seed extract in rats) ha dimostrato l’effetto ansiolitico dell’estratto di semi di Griffonia sui ratti, suggerendo un potenziale beneficio nell’uomo per il trattamento dell’ansia.

Controllo dell’appetito e del sovrappeso

Il ruolo della serotonina nell’assunzione di cibo e nell’omeostasi tra energia assunta ed energia spesa è stato studiato per decenni ed è ormai assodato che un’alterazione nei meccanismi di regolazione serotoninergica sia associata al sovrappeso e all’obesità.

Una ricerca del 2009 pubblicata sull’International Journal of Obesity (Satiety and amino-acid profile in overweight women after a new treatment using a natural plant extract sublingual spray formulation) ha dimostrato come una formulazione comprendente estratti vegetali contenenti naturalmente 5-HTP possa indurre un aumento significativo della sensazione di sazietà, che si è tradotta in un miglioramento dei principali indicatori di sovrappeso o obesità, quali l’indice di massa corporea, lo spessore delle pliche cutanee e la circonferenza dei fianchi.

L’aggiornamento del Novel Food status Catalogue a proposito della Griffonia simplicifolia

Un recentissimo aggiornamento da parte dell’EFSA del Novel Food status Catalogue ha interessato questa pianta, specificando che semi ed estratti di semi di Griffonia simplicifolia (Vahl ex DC.) Baill. fino a un massimo del 30% di 5-HTP, come il nostro estratto 100% Made in EPO, non sono considerati novel food negli integratori alimentari; il 5-idrossitriptofano (5-HTP), indipendentemente dal fatto che sia sintetizzato chimicamente o estratto selettivamente dai semi, continua ad essere novel food.

L’estratto di Griffonia simplicifolia (DC.) Baill. (o Griffonia simplicifolia (Vahl ex DC.) Baill.) Made in EPO

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Un ausilio contro le malattie parodontali da PLANoràl®

Le malattie parodontali rientrano tra le 6 malattie non trasmissibili più diffuse al mondo. In particolare, la gengivite, cioè una lieve infiammazione delle gengive, che, se non curata è prodromica alla più grave parodontite, secondo un’indagine realizzata dall’istituto di ricerca GfK e promossa da GSK Consumer Healthcare, colpisce circa 23 milioni di italiani.

Sintomi e cause di gengiviti e parodontiti

La gengivite è la forma più lieve di malattia paradontale; irritazione, arrossamento, gonfiore e dolore delle gengive quando si mangiano cibi caldi o freddi sono i sintomi più comuni, insieme al sanguinamento e all’alitosi, ma solo il 57% di chi ne è affetto riconosce la propria patologia e si rivolge ad un esperto per curarla.

La gengivite in genere è dovuta ad una scarsa igiene orale e alla mancanza di controlli periodici, ma se non viene trattata prontamente può evolvere verso forme più gravi non reversibili (parodontite), che possono causare anche la perdita dei denti.

Vediamo allora da dove nasce la gengivite: nella mucosa orale, calda e umida, vivono oltre 700 specie di microrganismi, prevalentemente batteri, che si mantengono in equilibrio con l’ospite; questo stato simbiotico è chiamato “eubiosi”. Quando esso si altera per qualsiasi ragione, possono proliferare i batteri “cattivi”, come ad esempio Porphyromonas gingivalis; questi si annidano nella placca, cioè la pellicola che si deposita costantemente sul dente. Per questa ragione è importante spazzolare i denti almeno 2 volte al giorno: l’azione meccanica permette di rimuovere, almeno in parte, la placca e dunque i batteri. Con il tempo quest’ultima si indurisce trasformandosi in tartaro, che si accumula alla base del dente stesso; il tartaro deve essere rimosso da un professionista: da qui l’importanza dei controlli periodici. Se ciò non avviene, la gengiva inizia ad infiammarsi, provocando i sintomi che abbiamo descritto sopra e che possono evolvere fino ad uno stato cronico non più reversibile, detto parodontite.

Dalla parodontite all’infiammazione sistemica

Parodontite che, come emerge da uno studio del 2021 pubblicato su Frontiers in Physiology (Periodontal Inflammation and Systemic Diseases: An Overview), è anche una fonte potenziale costante di infezione e infiammazione sistemica: nei pazienti affetti da malattia parodontale sono stati infatti osservati livelli più elevati di biomarcatori dell’infiammazione sistemica, come le citochine pro-infiammatorie (TNF-α, IL-1 e IL-6) e la proteina C-reattiva, come risultato della traslocazione microbica dalle lesioni parodontali.

Già da una ricerca del 2012 pubblicata sul Journal of Indian Society of Periodontology (Periodontitis and systemic diseases: A literature review) era emerso come infezioni e infiammazioni causate dalla parodontite possono essere diffuse ad altri organi attraverso il sangue e rappresentare un ulteriore fattore di rischio per disturbi cardio e cerebrovascolari o respiratori, diabete, insulino-resistenza, obesità, artrite reumatoide, osteoporosi, gestosi e nascite premature.

LEGGI ANCHE: Bocca sana per un corpo sano: il legame tra salute del cavo orale e malattie sistemiche

La combinazione di Cistus incanus L. e Scutellaria lateriflora L. (PLANoràl®) per la salute del cavo orale

Studi preclinici pubblicati sulla rivista scientifica Foods (In Vitro Antimicrobial and Antibiofilm Properties and Bioaccessibility after Oral Digestion of Chemically Characterized Extracts Obtained from Cistus × incanus L., Scutellaria lateriflora L., and Their Combination) hanno già evidenziato come la combinazione di Cistus incanus L. e Scutellaria lateriflora L. (PLANoràl®) abbia un’azione antimicrobica specifica su P. gingivalis, oltre a ridurre la formazione del biofilm (cioè della placca subgengivale che si forma sul dente all’inizio del processo esaminato sopra) di circa l’80%; effetti promettenti e potenzialmente utili per il trattamento della gengivite.

LEGGI ANCHE: Estratti vegetali di Cistus incanus L. e Scutellaria lateriflora L.: la loro combinazione ha proprietà antimicrobiche e antibiofilm, per la prevenzione delle malattie parodontali

Un miglioramento clinicamente rilevante e statisticamente significativo dello stato di salute gengivale

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Ora un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nutrients il 16 Marzo 2024 (Efficacy and Tolerability of a Scutellaria lateriflora L. and Cistus × incanus L.-Based Chewing Gum on the Symptoms of Gingivitis: A Monocentric, Randomized, Double-Blind, Placebo-Controlled Clinical Trial) conferma la potenziale attività benefica di PLANoràl®. Sotto forma di gomma da masticare, in modo da garantire un contatto prolongato con il cavo orale ed assunta per 3 mesi 2 volte al giorno, ha procurato un miglioramento clinicamente rilevante e statisticamente significativo dello stato gengivale nei volontari che durante lo studio hanno assunto PLANoràl® rispetto al placebo, in particolare rallentando i sintomi associati alla gengivite e arrestando la sua progressione verso la parodontite.

 

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Nomenclatura scientifica delle piante: origine ed importanza

La nomenclatura botanica è la “lingua franca” con cui sono identificate in modo univoco le piante in tutto il mondo. In pratica è la loro denominazione formale e scientifica, stabilita al termine del processo di classificazione tassonomica. Consente infatti di identificare una pianta, indipendentemente dai nomi vernacolari, che cambiano da una lingua all’altra o addirittura da una regione a un’altra all’interno di uno stesso Paese. Oggi le regole della nomenclatura botanica vengono stabilite dall’International Code of Nomenclature for algae, fungi, and plants (ICN or ICNafp): l’ultima versione è entrata in vigore nel 2018.

La nomenclatura botanica, per come la conosciamo, nasce sostanzialmente con Linneo nel 1753, ma per capire fino in fondo l’importanza del nome scientifico delle piante, c’è una lunga ed articolata storia da raccontare.

Da Teofrasto al Medioevo

Già dall’antichità venivano attribuiti dei nomi a quelle che oggi considereremmo delle specie, in virtù di loro caratteri e usi specifici, da quello alimentare a quello ornamentale o funzionale. È però il filosofo greco Teofrasto (371-287 a.C.) il primo a cercare di descrivere, raggruppare e differenziare tra loro le piante, sulla scorta degli insegnamenti del suo grande maestro Aristotele. In tal modo riconobbe l’esigenza di una classificazione del mondo vegetale, ragione per la quale è ricordato come il padre della botanica e della tassonomia. La sua opera “Historia Plantarum” fu tradotta in persiano e in arabo nel Medioevo, ma rimase pressoché sconosciuta fino al XV secolo in Europa, dove avevano goduto di maggior fortuna laNaturalis Historia” di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) e ilDe Materia Medica” di Dioscoride (~ 40-90 d.C.).

Il Rinascimento

Il Rinascimento rappresentò un periodo di rinascita per la scienza in generale e per la botanica in particolare; presso le università nacquero i primi orti botanici (Pisa nel 1544, Padova e Firenze l’anno successivo), eredi degli horti sanitatis dei monasteri medievali. Inoltre, gli Europei stavano esplorando nuovi continenti, riportandone molte piante sconosciute, che vennero acclimatate nei giardini italiani e non solo; l’invenzione della stampa (1450-1455) rese più facile la circolazione delle informazioni e delle idee, contribuendo al progresso delle conoscenze scientifiche.

Fu l’italiano Andrea Cesalpino (1524-1603), pur partendo dai dettami aristotelici, a proporre nel suo “De Plantis Libri XVI” (1583) una classificazione delle piante più razionale e al tempo stesso innovativa, basata sulla morfologia di fiori e frutti, sostituendo così l’ordine alfabetico precedentemente in uso per organizzare gli erbari.

Linneo e la nascita del sistema binomiale

La svolta arrivò finalmente nella prima metà del XVIII secolo, quando il botanico svedese Carl von Linné propose un chiaro sistema di classificazione delle piante basato sul numero di stami e stigmi dei fiori, che permetteva di identificare una pianta mediante genere e specie, al posto del complicato sistema descrittivo utilizzato fino a quel momento.

Questo sistema semplice e razionale, descritto nella sua famosa opera “Species Plantarum” (1753), diede inizio alla nomenclatura binomiale che usiamo ancora oggi, composta dal nome del genere a cui appartiene la specie e da un epiteto che distingue quella specie dalle altre appartenenti allo stesso genere.

Il pensiero evolutivo nella teoria della classificazione

All’inizio del XIX secolo, i tassonomisti non erano più interessati solo a descrivere, classificare e denominare gli organismi, ma anche a spiegare l’origine della diversità osservata.

Quando Charles Darwin (1809-1882) pubblicò “L’Origine delle Specie (1859) introdusse anche in botanica quel concetto chiave di discendenza con modificazione che è ancora oggi generalmente accettato con il termine di filogenesi. Ciò significa che i caratteri utili alla tassonomia, e di conseguenza alla nomenclatura botanica, sono quelli ereditati da un antenato comune.

Nacque così una nuova era nella classificazione della natura, che riflette la storia evolutiva della vita.

La scoperta del DNA da parte di James Watson e Francis Crick (1953) ha notevolmente migliorato la comprensione dei processi evolutivi e, al passaggio nel XXI secolo, i dati molecolari, insieme a sempre più potenti algoritmi di calcolo, consentono una più raffinata delimitazione di ordini e famiglie delle piante, permettendo la loro corretta classificazione e rendendo più precisa la nomenclatura botanica.

L’importanza della nomenclatura botanica

Ci sono voluti oltre venti secoli per arrivare all’attuale sistema di nomenclatura binomiale, che consente agli scienziati di classificare gli organismi in modo univoco in base a caratteristiche riconosciute. Una nomenclatura che permette alle persone di tutto il mondo di riferirsi a una specifica pianta in modo chiaro e conciso, evitando la confusione data dai nomi comuni che invece riflettono la cultura e la lingua dei diversi popoli.

Per convenzione, si continuano ad adottare i nomi latini, in quanto il Latino, per secoli, è stata la lingua veicolare degli studiosi; il nome generico porta sempre l’iniziale maiuscola, mentre la specie viene scritta in minuscolo; entrambi i nomi vanno inoltre indicati in corsivo. Il binomio è seguito dal nome dell’autore, normalmente abbreviato.

Tuttavia, bisogna sempre tener presente che, grazie al progresso scientifico e tecnologico, la nomenclatura delle piante non è un codice immutabile: può capitare che a seguito di un cambiamento nella classificazione, si debba aggiornare in parte o tutto il nome, per cui una stessa specie può adottare nel tempo anche diversi nomi.

Per mantenersi sempre aggiornati è quindi fondamentale consultare database ufficiali, come ad esempio  WFO Plant List, in cui vengono riportati anche i sinonimi di ciascuna specie.

Un aiuto contro lo stress dall’ estratto di Scutellaria lateriflora L.

Spossatezza, sbalzi d’umore, mal di testa, insonnia, variazioni di peso e altri sintomi comuni dello stress colpiscono sempre più persone in tutto il mondo: secondo uno studio di Assosalute precedente la pandemia, l’85% degli Italiani presentava disturbi legati allo stress; d’altro canto, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha stimato che i disturbi legati all’ansia siano i disturbi mentali più comuni al mondo.

La pandemia di Covid-19, con le sue conseguenze a livello economico e sociale, ha ulteriormente aggravato la situazione.

La risposta del nostro corpo allo stress e il ruolo del cortisolo

È importante comprendere che lo stress di per sé stesso non è negativo, anzi ci aiuta ad affrontare le sfide quotidiane. Quando però è in eccesso può avere serie ripercussioni sulla nostra salute, sia sul corpo che sulla psiche.

Il nostro corpo reagisce agli stimoli stressogeni rilasciando cortisolo dalle ghiandole surrenali. Per questo il cortisolo è noto anche come “l’ormone dello stress”.

La concentrazione del cortisolo nel sangue viene finemente regolata dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. L’attivazione di questa cascata serve a consentire la reazione di “attacco o fuga”: il cortisolo attiva infatti il metabolismo, mettendo a disposizione dell’organismo un surplus di glucosio, sopprimendo invece i processi che consumano energia, quali, ad esempio, il sistema immunitario.

Se lo stress perdura nel tempo, l’eccesso di cortisolo può avere effetti dannosi su diverse funzioni, come quella immunitaria, endocrina, cardiovascolare, e a livello del sistema nervoso centrale. Può provocare inoltre disturbi del sonno, con difficoltà nell’addormentarsi o risvegli frequenti, nonché una diminuzione della densità minerale ossea, con rischio di osteoporosi.

Le piante del genere Scutellaria per favorire rilassamento e sonno

Le piante del genere Scutellaria vantano un lungo uso tradizionale nella medicina erboristica per favorire il rilassamento ed il sonno, ma solo la S. lateriflora L. viene riconosciuta per questa finalità dalle linee guida del Ministero della Salute italiano sugli effetti fisiologici dei botanicals utilizzati negli integratori alimentari. Inoltre, la Scutellaria può essere adulterata con delle specie morfologicamente simili, ma epatotossiche del genere Teucrium; in questo caso il DNA barcoding si rivela uno strumento prezioso e sicuro per l’identificazione della corretta specie botanica.

Un nuovo studio su BlueCALM®

Ora un nuovo studio pubblicato a gennaio 2024 sulla rivista scientifica Molecules pone le basi scientifiche per confermare questo utilizzo, dimostrando come un estratto di Scutellaria lateriflora L. caratterizzato chimicamente (BlueCALM®) svolga una significativa azione inibitoria sul rilascio di cortisolo in un modello in vitro. Per maggiori dettagli su questo studio leggi anche la nostra news.

Per saperne di più su BlueCALM®, il nostro estratto secco titolato al 10% in baicalina, da filiera italiana (lombarda e trentina), identificato mediante DNA barcoding, scarica la nostra brochure.

Scutellaria lateriflora L.: un estratto idroalcolico, caratterizzato chimicamente, come possibile ingrediente nutraceutico nello stress correlato al rilascio del cortisolo

Un nuovo studio in vitro pubblicato a gennaio 2024 sulla rivista scientifica Molecules mostra per la prima volta come un estratto di Scutellaria lateriflora L. caratterizzato chimicamente (BlueCALM®) possa essere un candidato ideale come ingrediente nutraceutico per il rilassamento ed il sonno, grazie alla sua significativa azione inibitoria sul rilascio di cortisolo, il cosiddetto “ormone dello stress”.

Lo studio ha impiegato un modello in vitro in cui cellule di carcinoma surrenalico umano vengono pretrattate con forskolina, una molecola che stimola la produzione di cortisolo; a queste cellule viene poi aggiunto l’estratto in esame e si misurano gli effetti inibitori. L’inibizione indotta da BlueCALM® è risultata significativa, con una diminuzione compresa tra 58 e 91%.

Nel corso dello studio è stata simulata anche la digestione dell’estratto, in modo da trarre indicazioni circa la forma farmaceutica da utilizzare in futuri esperimenti in vivo, e sono stati eseguiti studi di biodisponibilità su due modelli diversi, per valutare l’assorbimento di queste macromolecole attraverso i sistemi-membrana.

I risultati incoraggianti suggeriscono possibili applicazioni di BlueCALM® come ingrediente da impiegare in integratori alimentari per aiutare a combattere lo stress eccessivo e le conseguenze indotte da livelli elevati di cortisolo, quali insonnia, disturbi endocrini ed immunitari e osteoporosi.

Per saperne di più su BlueCALM®, il nostro estratto secco titolato al 10% in baicalina, da filiera italiana (lombarda e trentina), identificato mediante DNA barcoding per escludere adulterazioni con piante epatotossiche del genere Teucrium, scarica la nostra brochure.

Piante adattogene: un aiuto per l’omeostasi psico-fisica

Il freddo e la riduzione delle ore di luce tipici dell’inverno sono fattori di stress che agiscono sul nostro organismo dall’esterno. Squilibri alimentari e del sonno, ansia, stanchezza agiscono invece dall’interno. Sono solo degli esempi di condizioni in grado disturbare la capacità di autoregolazione del nostro corpo, che tenderebbe naturalmente a una condizione di stabilità.

Quando infatti l’omeostasi viene messa in crisi da squilibri di varia origine, il nostro corpo mette in atto una serie di meccanismi di difesa riparatori che producono modificazioni biologiche, ormonali, neurovegetative e immunitarie.

Tuttavia, questa reazione comporta l’impiego di energie supplementari e non sempre la nostra capacità di resilienza ci consente di rispondere adeguatamente ai numerosi agenti stressogeni. Se ciò accade, è facile cadere in uno stato di affaticamento fisico e mentale.

Quando si accende questa spia di riserva, un aiuto ci può giungere allora dalla natura tramite le piante adattogene, in grado di contrastare i fattori di stress, facilitare l’adattamento, migliorare le performance e riportare l’organismo in condizioni di equilibrio psico-fisico.

Piante adattogene: una risposta dalla natura agli squilibri psico-fisici

 

Quello di piante adattogene (dal latino “adaptare”, cioè adattare) è un concetto coniato nel secondo Dopoguerra dal farmacologo russo Nicolai Lazarev, basandosi su precedenti studi compiuti in particolare sulla schisandra (Schisandra chinensis Baill.), o Wu We Zi (“bacca dei 5 sapori”). La pianta vantava infatti un lunghissimo uso tradizionale presso i cacciatori della Siberia e del Nord della Cina come stimolante naturale, in grado di ridurre la fatica e la fame. Va detto però che un’idea analoga esisteva da tempo immemore sia nella medicina cinese (i cosiddetti tonici del “qi”) che nell’Ayurveda (i rimedi “rasayana”)

Sulla scorta dello studio pubblicato sull’Annual Review of Pharmacology da Brekhman e Dardymov nel 1969 e degli studi successivi si definiscono oggi “adattogene” quelle piante medicinali e i relativi estratti che consentono all’organismo umano di adattarsi con una risposta non specifica a fattori di stress di qualsivoglia natura mediante un effetto multitarget sul sistema neuroendocrino ed immunitario, che innesca un’azione normalizzante.

Una definizione debitrice alla medicina olistica, che considera il paziente innanzitutto una persona, composta di corpo, mente e spirito; all’interno di questo perimetro la comunità scientifica sta cercando di identificare i meccanismi molecolari chiave comuni tra più di 70 piante con una evidente azione adattogena.

Un’altra caratteristica delle piante adattogene è la loro sicurezza d’impiego, testimoniata dal loro uso millenario; a tal proposito meritano sicuramente una posizione di rilievo il Ginseng, l’Ashwagandha e la Maca, 3 piante provenienti da 3 diverse aree del Pianeta, tuttavia con usi simili riconosciuti dalla medicina tradizionale fin dall’antichità.

Ginseng

 

Il Ginseng è probabilmente la più antica pianta adattogena conosciuta dall’uomo. Nota da circa 7000 anni, è citata tra le piante più nobili con proprietà stimolanti nel Shennong Bencao Jing, una sorta di farmacopea cinese scritta oltre duemila anni fa. Se ginseng in cinese significa “pianta dell’uomo” per il suo aspetto antropomorfico, il termine Panax, che identifica il genere di 11 specie di piante appartenenti alla famiglia delle Araliaceae, deriva dal greco antico con significato simile a quello latino di panacea, cioè “rimedio a tutti i mali”.

Numerosi studi hanno dimostrato come l’effetto adattogeno della radice di Ginseng dipenda principalmente dai ginsenosidi, delle saponine triterpeniche con un’azione corticosteroidea. Per approfondire il meccanismo d’azione del ginseng puoi leggere anche il nostro articolo sui botanicals con proprietà adattogene: evidenze scientifiche. Se invece vuoi scoprire come si differenzia l’estratto di radice di Ginseng da quello delle foglie, scarica la nostra brochure.

Ashwagandha

 

L’Ashwagandha o Withania somnifera L. Dunal. (WS), è un piccolo arbusto appartenente alle Solanaceae (la stessa famiglia del pomodoro o delle patate), tipico delle regioni aride del subcontinente indiano; è nota anche come “ginseng indiano”, per il ruolo importantissimo che la pianta ricopre da sempre nella medicina indiana (Ayurveda), analogo a quello che il Panax ginseng occupa in quella cinese, cioè di “rasayana”, prescritta in casi di convalescenza, debilitazione, in geriatria e per migliorare le prestazioni intellettuali, in particolare la memoria.

L’effetto adattogeno dell’Ashwagandha viene ascritto ai witanolidi, dei lattoni steroidei che svolgono una potente azione antiossidante a livello del tessuto neuronale.

Maca 

 

Anche la Maca (Lepidium meyenii Walp.), una pianta della famiglia delle Brassicaceae nota gergalmente come ginseng delle Ande o ginseng peruviano, è considerata tradizionalmente una pianta medicinale con funzioni adattogene e di miglioramento della fertilità, come osservato fin dal XVII secolo da alcuni esploratori europei.

La Maca è una pianta molto ricca di principi nutrizionali e rappresenta un’importante risorsa nell’alimentazione delle popolazioni andine; contiene anche delle molecole, le macamidi, che sono considerate responsabili della sua attività.

Secondo una recente revisione sistematica (Cherie Bower-Cargill, Niousha Yarandi, 2022) condotta su un totale di 57 studi (14 clinici e 43 preclinici), questa pianta è risultata efficace nel trattamento di numerose condizioni oltre alle disfunzioni sessuali e ai sintomi della menopausa.

Scopri tutti gli estratti Made in EPO nella sezione dedicata del nostro sito.

Possibile ruolo di un blend a base di estratti vegetali di Cistus incanus L. e Castanea sativa Mill. nel malessere gastrico da H. pylori

Un nuovo studio in vitro pubblicato sulla rivista scientifica Foods a Dicembre 2023 evidenzia come la combinazione di Cistus x incanus L. e Castanea sativa Mill. (Gastalagin®) possa essere un candidato ideale per contrastare il malessere gastrico dovuto a H. pylori, un batterio che, secondo le fonti di letteratura, sarebbe presente nel 50% della popolazione umana.

Le piante del genere Cistus sono state tradizionalmente utilizzate nell’area mediterranea per curare patologie infiammatorie e infettive, comprese le affezioni gastrointestinali. Le parti aeree delle Cistaceae, tra cui il Cistus x incanus L., sono infatti ricche di polifenoli come tannini condensati e idrolizzabili, procianidine e flavonoidi, che hanno dimostrato proprietà anti-infiammatorie, antibatteriche e anti adesive, con azione gastroprotettiva.

Da un precedente studio pubblicato a Marzo 2023 sulla rivista scientifica Nutrients era inoltre emerso come due ellagitannini contenuti nelle foglie di castagno avrebbero un ruolo importante nell’interazione tra H. pylori ed epitelio gastrico umano, con dimostrate proprietà antinfiammatorie attraverso l’inibizione del fattore trascrizionale NF-kB, primariamente coinvolto nella risposta all’infezione.

Il razionale del blend nasce quindi dall’osservazione che l’attività biologica del castagno e di Cistus x incanus L. non sono esattamente sovrapponibili, in quanto la componente antibatterica prevale in Cistus x incanus L. e quella antinfiammatoria nel castagno.

Lo studio, condotto dal Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari “Rodolfo Paoletti” dell’Università degli Studi di Milano, è la prima dimostrazione dell’attività sinergica dei due estratti in vitro contro l’infezione da H. pylori.

Per saperne di più su Gastalagin®, il nuovo estratto brevettato EPO, blend di Castanea sativa Mill. e Cistus x incanus L., standardizzato in castalagina e vescalagina, con attività antinfiammatoria sulla mucosa gastrica e azione antibatterica specifica su Helicobacter pylori, leggi il nostro articolo sui botanicals per i disturbi digestivi e l’infezione da Helicobacter pylori.

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